La metropolitana (di Roma) al tempo di Atac



Stazione termini, Metro B. Piazza Cinquecento. Davanti all'ingresso c'è un grande vaso vuoto. Anziché fiori o piante dentro ci sono rifiuti: per lo più scarti di cibo e lattine di birra. Si scende con una scala mobile d'acciaio, in genere funzionante, ma l'acciaio dei corrimani è segnato da lunghe strisce di sporcizia. 



Un minuto dopo quella scala ti porta giù, nel mondo di sotto dove iniziano gallerie dipinte di un bianco angoscioso, cupe e disadorne come i corridoi di un carcere.

Vicino ai tornelli due militari con scarponi neri, tuta mimetica e un fucile, forse un mitra. Sensazione di protezione, sicurezza, controllo che attenua l'inquietudine di essere appena scesi in questo girone. Il pavimento di un marmo arlecchino, ocra, azzurro, grigio e marrone, è opaco e sudicio. Hai lasciato la superficie solo da pochi minuti ma il tuo umore è già cambiato e all'improvviso ti senti ancora più anonimo e isolato, in un girone infernale che hai fretta di lasciare al più presto.

Una donna, addetta alle pulizie lava il pavimento, con acqua, detersivo e il mocio vileda come quello che si usa a casa. Un'impresa superiore alle sue forze. Forse le ci vorrebbe qualcosa di più tecnologico. Dopo di lei, intenta al suo paziente e disperato compito, tre panchine di marmo larghe e basse che neppure si vedono tra la folla. Decine di persone che aspettano.

Il display annuncia che il convoglio sta per arrivare. E il convoglio arriva puntualissimo, efficientissimo, spacca il minuto ma è stracolmo, affollato, pieno zeppo. Qualcuno scende ma quelli che devono salire sono molti di più. Ci si stringe, con fastidio, con educazione, tolleranza, spostandosi, spingendosi, urtandosi. Però alla fine tutti riescono ad entrare formando un unico blocco compatto di cappotti grigi, piumini neri, trolley di metallo, zaini, sciarpe e cappelli di lana.

Poi qualcuno comincerà a scendere e allora potrai riprenderti il tuo spazio vitale. Questo miracolo, si ripete ogni giorno, con l'educata rassegnazione dei cittadini di serie B, quelli che prendono la metro ogni giorno e che la metro se l'aspettano proprio così perché è stata costruita per gente comune e quindi è stata costruita così come è: brutta, sporca e triste. Senza colori, senza bellezza per tenere la felicità lontana. Ogni tanto può capitare che qualcuno si lamenti del disservizio o della maleducazione di qualcun altro. Ma accade raramente perché la rassegnazione e l'abitudine producono, tra i loro effetti collaterali, una silenziosa sopportazione dei disagi quotidiani, nell'unica comune speranza di risalire in superficie.

Quattro fermate dopo. Stazione Piramide. Inizia il ritorno verso la periferia. I vagoni si svuotano velocemente. Senso di sollievo. Posti liberi. Ci si può sedere. Entrano gruppi di ragazzi. Forse dalla vicina università. Allegria di studenti che parlano. Finalmente qualcuno dice qualcosa, racconta, sorride, saluta. Adesso c'è lo spazio per guardarsi intorno e capire con chi stai condividendo il viaggio. Colf straniere, anziane signore, impiegati, segretarie, operai, qualche nonno con il suo nipotino, rari i distinti signori con la cartella dei documenti. Hanno tutti lo sguardo rassegnato di chi prende la metro tutti i giorni. I turisti hanno facce diverse, espressioni curiose, sono un corpo estraneo e sanno di essere lì solo di passaggio.

Gli schermi posti in alto, al centro dei corridoi delle carrozze più nuove, indicano le fermate, in italiano e in inglese, e mandano incessantemente in onda pubblicità di villaggi vacanze, di bianchissime isole tropicali e di sfilate di alta moda a Londra, Parigi, New York. Chi sceglie queste immagini non deve avere un grande senso del marketing. Il blocco grigio-nero, composto di persone-cappotti-borse-trolley-ombrelli-Iphone, non può permettersi niente di simile e non ha neppure la forza di sognarlo mentre viaggia nei vagoni della metro di Roma. Le loro facce non sono facce da resort, da isole tropicali e neppure da alta moda. La metro, infatti, non è solo un mezzo di trasporto, la metro è una condizione, uno stato d'animo che produce, a lento rilascio, strani effetti collaterali e disturbi dell'umore.

Metro A, fermata Barberini, a piazza Barberini, vicino Fontana di Trevi. Scala mobile dalle pareti di acciaio lucido ma, tra il corrimano e la parete della volta, nera di fuliggine, si trovano lattine di birra e cartacce trasparenti come quelle che ricoprono le merendine per bambini. Anche qui soldati, alti, con tuta mimetica e fucile. O mitra. Qualche mese fa uno di loro si è suicidato mentre era di turno.

Dal fondo del linoleum nero, si vedono barboni accovacciati, appoggiati alle pareti giallo-arancione, perché la metro è anche una città sotterranea che accoglie chi non può sopravvivere nella città in superficie: matti che parlano da soli, mendicanti che chiedono l'elemosina, musicisti di strada con l'amplificatore elettrico che cantano pezzi da hit parade. A volte entrano nelle carrozze, si siedono accanto a te e ti fanno sentire come loro. Un abitante dello stesso inferno.

Da Huffingtonpost


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