Le confessioni di un pendolare Atac

Le confessioni di un pendolare Atac


La corsa ai posti migliori diventa una gara per la vita. Ma quando la densità antropica nel vagone diventa simile a un carnaio da rave a Ibiza, allora i più disperati si siedono comunque. Non resta che sperare in scioperi e smart working





Servizio pubblico o sevizia pubblica? È il primo pensiero che mi balena per la testa mentre fermo sulla banchina attendo che lo sferragliante trenino Roma-Lido mi aliti in faccia la sua aria calda: con gentile eufemismo lo si definisce ‘rimodulato’, ovvero un convoglio ogni venti minuti in piena ora di punta. 

Quando, per miracolo, ne dovesse arrivare uno quasi puntuale ti viene in mente la frase di Karl Kraus, ‘ci sono dei treni non puntuali che non sanno abituarsi ad attenersi ai loro ritardi’. 

Pendolari e redivivi studenti, con le scuole riaperte, che si accalcano in una configurazione laocoontica a metà tra un dipinto di Escher e un match di wrestling: la corsa ai posti migliori diventa una gara per la vita, anche perché le sedute sono contingentate, presidiate da adesivi che vieterebbero l’utilizzo dei posti intermedi. 

Condizionale d’obbligo: quando la densità antropica nel vagone diventa simile a un carnaio da rave a Ibiza in tempi pre-pandemici e l’aria si rende irrespirabile, con gli occhiali appannati dalla calca inumana e dalle mascherine ormai così aderenti al volto da essere divenuti bendaggi alla Silent Hill, i più disperati finiscono per violare quel precetto e si siedono comunque.

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